Se i cinghiali potessero parlare si troverebbero a dover spiegare parole come amore e morte e cercherebbero con tutti i mezzi a propria disposizione di farsi capire, cercherebbero di non farsi fraintendere. Né più e né meno di quello che farebbero –fanno– gli uomini, anche quelli che vivono a Corsignano, una sorta di Macondo toscana al confine con l’Umbria, e luogo in cui agiscono i protagonisti del romanzo d’esordio (candidato allo Strega 2016) di Giordano Meacci, già co-sceneggiatore insieme a Francesca Serafini, dell’ultimo (ahinoi) film di Claudio Callegari, Non essere cattivo.
Ma Il cinghiale che uccise Liberty Valance, (minimum fax) questo il titolo del romanzo con un più che evidente rimando al western di John Ford del 1962, è sopratutto un libro in grado di inventare una lingua letteraria fatta di registri diversi, una lingua ricca di subordinate e digressioni ma capace, come ha raccontato Meacci stesso a La colazione dei campioni, di accogliere il lettore e farlo sentire a proprio agio.
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