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A KmZero non tutta la plastica vien per nuocere

Bologna, 3 dic. – Non tutta la plastica viene dal petrolio, come non tutta la bioplastica è biodegradabile. Sono alcuni dei miti (o meglio, dei pregiudizi) che la professoressa Mariastella Scandola, docente del dipartimento di chimica Ciamician dell’Alma Mater di Bologna, ha spiegato questa mattina durante KmZero. Scandola guida il Polymer Science Group, un gruppo di studio interno al dipartimento di chimica specializzato proprio nello studio delle materie plastiche: “Quella che noi chiamiamo comunemente plastica è, in termini un attimo più precisi, un materiale composto da molecole molto lunghe che noi chiamiamo polimeri“. Sono materiali di larghissimo uso e “nella quasi totalità attualmente sono derivati dal petrolio”. Quasi totalità: esiste infatti un settore in espansione che è quello delle bioplastiche, materie plastiche ottenute dai fonti rinnovabili.

Non è la provenienza del polimero (petrolio o biomasse) a determinarne la biodegradabilità. “Esistono polimeri prodotti dal petrolio perfettamente biodegradabili così come polimeri da bioplastica che non lo sono” racconta Scandola. Da cui deriva la complessità del problema dell’inquinamento da materie plastiche. Per Scandola innanzitutto è opportuno non demonizzare il materiale in quanto tale: è l’uso, o meglio, il modo in cui viene smaltita la plastica quando ha finito la funzione per la quale è stata creata che può produrre inquinamento. I polimeri sono fondamentali per la realizzazione di un gran numero di oggetti che, al momento, è impossibile realizzare con altri materiali. L’esempio che cita la professoressa Scandola riguarda la chirurgia: “Le flebo non si possono fare in legno”. Per questo, sgombrato il campo dalla demonizzazione, è opportuno ragionare sul come produrre plastica con l’impatto più basso possibile sull’ambiente.

“Perché si cerca di avere dei polimeri da fonte rinnovabile? Per limitare almeno in parte l’uso del petrolio come unica materia prima e quindi per cercare di non contribuire al famoso riscaldamento globale, buco dell’ozono, anidride carbonica ributtata in atmosfera in maniera cospicua”. E’ tutta una questione di bilanci, anche quella ambientale. “Se io prendo il carbonio che serve per fare queste plastiche da una fonte fossile- spiega Scandola-, uso la plastica e poi il carbonio lo ributto in atmosfera in qualche maniera (perché lo brucio, o in qualche altra maniera..), sto prendendo del carbonio che ci sono voluti miliardi di anni a bloccarlo sotto terra, renderlo fossile, e lo ributto in atmosfera nel giro di qualche anno. Se invece io cerco di prendere il carbonio da una fonte rinnovabile, che sono piante, resti agricoli o qualunque cosa che ha già un suo ciclo vitale annuale, e lo ributto in atmosfera con un ciclo rapido, sicuramente non sto alterando nessun equilibrio del nostro pianeta”.

Da cosa si può produrre la bioplastica? Un esempio lo fornisce Giulia Gregori, responsabile Pianificazione Strategica di Novamont, azienda italiana leader nel settore delle plastiche da materie prime rinnovabili e detentrice di molti brevetti, il Mater-bi su tutti. “Ora in Sardegna Novamont sta sviluppando un progetto che riguarda la coltura del cardo“. Si tratta di un cardo tipico dell’isola, che non è adatto all’alimentazione, ma i cui semi possono essere impiegati per la produzione di polimeri. L’impiego di piante per la creazione di prodotti non alimentari fa subito sorgere dubbi etici e di non poco conto. Il riferimento è al land grabbing, il fenomeno che, soprattutto nel sud del mondo, vede multinazionali accaparrarsi il terreno fertile per produrre biocarburanti sottraendolo alle colture destinate all’alimentazione. Su questo tema Gregori risponde che per l’industria dei materiali non sono necessari grandi quantitativi di biomasse e soprattutto che la scelta su terreni da coltivare a biomasse può ricadere su terreni incolti o inquinati. Tornando all’esempio della Sardegna, Gregori sottolinea che la filiera del cardo per la produzione di bioplastica potrebbe fornire anche mangime per gli ovini: gli stessi semi utilizzati per la produzione dei polimeri, una volta spremuti possono diventare alimento per le pecore e le capre.

Nella prima parte della trasmissione abbiamo parlato con Giancarlo Sturloni, giornalista de l’Espresso, curatore del blog Toxic Garden, autore del libro Pianeta Tossico, edito da Piano B edizioni.

Il podcast completo della puntata

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